Ci sono moltissime cose di cui vorrei scrivere in questi giorni. L’incredibile scossone a cui la realtà ci ha costretti e il susseguirsi delle collezioni moda nelle varie Fashion Week mondiali stanno coesistendo da almeno due settimane: il risultato è un miscuglio di stimoli e sensazioni contrastanti solo in apparenza. Tra le polemiche in cui è stata coinvolta l’industria della moda, quella di questi giorni mi è sembrata la più comprensibile e assurda di sempre:
-comprensibile per la vulnerabilità di cui tutti siamo schiavi
-assurda perché frutto di un pensiero che continua a non considerare la moda e gli happenings a essa collegati semplicemente lavoro.
Non voglio menzionare quanti soldi smuove la moda solo in Italia perché mi renderei parte di quel giochino secondo cui in nome dei soldi possiamo passare sopra alle persone prima metaforicamente, poi fisicamente. Mi soffermerò quindi piuttosto sul fatto che ancora oggi, nel 2022, alle porte di un nuovo conflitto (non l’unico), reduci da uno scenario pandemico, stiamo additando un mestiere artistico/creativo perché (r)esiste. Abbiamo avuto tutt* difficoltà in questi giorni a vivere il normale corso delle cose ma non ho visto uffici chiudersi, aziende fermarsi.
Mi rendo conto che l’entusiasmo, lo scintillio, il lusso che la Fashion Week porta necessariamente con sé mal si associano al sentimento comune di raccoglimento, sbigottimento e sofferenza. Non per questo possiamo giudicare sterilmente un intero settore rubando la sua ragion d’essere. O per lo meno, se proprio dobbiamo farlo, decliniamo le stesse responsabilità anche ad altri settori “poco sobri”.
La questione è però più controversa del previsto: la moda non è un’arte avulsa dalla realtà, nonostante qualcuno cerchi di farla sembrare tale. La moda si muove nella società e ne è la più fedele cittadina anche se si maschera spesso da semplice turista.
Sono sempre stata contro la teoria che l’artista debba necessariamente giustificare la propria arte e renderla schiava dell’opinione pubblica. Ma mi sono arresa al fatto che la moda non possa più esimersi dal prendere delle responsabilità sociali: l’opinione pubblica pretende fermamente che la moda sia immersa nella società ma al contempo se le collezioni mancano di contesto sembra non accorgersene.
La cosa che non mi convince è proprio questa. Se la moda deve esporsi a tutti costi, deve allora farlo con coraggio anche se questo significa perdere mercati coinvolti. Dall’altra parte se pretendiamo questo gesto dobbiamo essere pronti a proteggere economicamente e socialmente tutti quei designer che scelgono da che parte stare (con la vita o contro la vita/con la guerra o contro la guerra). Chi fa gesti timidi solo per calmare gli animi andrebbe giudicato peggio di chi non fa proprio nulla.
In ogni caso le reazioni dei brand a questa pressione sono state diverse e vorrei leggerle con voi dandovi, come sempre, il mio personalissimo parere.
Possiamo ritenere “impreparati” agli avvenimenti i brand che stavano già sfilando a Milano e che si erano posti il problema di fare una moda post-pandemica e adatta ad una crisi economico-energetica. Hanno fatto male i conti forse, pensando che con la fine della pandemia ci saremmo potuti lasciare alle spalle tutte le tragedie del mondo. E invece no, addirittura se n’è aggiunta un’altra. Giornalisti e pubblico hanno accolto con entusiasmo il gesto di Armani di sfilare senza musica, una scelta fin troppo elegante a mio parere che si scontra con il chiasso della manifestazione di Milano. Insomma tutto molto bello e reattivo ma se questa è l’esposizione che cerchiamo ci accontentiamo di poco.
Il minimalismo surrealista presentato su alcune passerelle per l’ennesima volta si è dovuto scontrare con scelte più audaci che hanno saputo rispondere più prontamente. Volendo, per tempismo, evitare giudizi su tutte le collezioni di Milano, parto dicendovi che il mix tra sperimentazione e minimalismo di Loewe è stata la manifestazione forse più decontestualizzata che ho visto in passerella a Parigi. Un’esaltazione di giochi di forme inaspettate che richiede forse troppa energia nella comprensione. Questo non c’entra nulla con l’estetica della collezione che comprende dei capi davvero interessanti.
E’ stato più fortunato Piccioli che con Valentino ha fatto un atto di coraggio creativo. La collezione è stata sviluppata azzerando la palette e declinandola soltanto a due possibilità: il colore e l’assenza di colore. Un rosa tendente al fucsia da una parte, il nero dall’altra ed ecco che un gioco di amore e oblio prende vita. Non ha previsto nulla, secondo me è solo rimasto al passo dei tempi decodificando un bisogno. Poi è stato anche fortunato, ammettiamolo. Di tutto questo non ho apprezzato il pensiero mainstream di base “Love is the answer” perché di frasi fatte adesso non ce ne facciamo nulla. E non può essere solo l’amore a riportare l’uomo all’umanità.


A rendere il gap preoccupante e a creare un ponte definitivo tra moda e realtà è stato Demna Gvasalia che a capo di Balenciaga ha messo la sua esperienza di rifugiato di guerra prima del mercato. Scappato da bambino dalla Georgia, si è rifugiato proprio ad Odessa con la sua famiglia per poi stabilirsi in Germania. Secondo la lettera scritta a tutti gli ospiti e al pubblico, i fatti dell’Ucraina di questi giorni hanno fatto riaffiorare il suo dolore inducendolo a pensare di annullare la sfilata. Pensate che questo uomo emotivamente scosso è riuscito a ragionare sulla questione arrivando alla conclusione che annullare lo show avrebbe significato buttare all’aria il lavoro di centinaia di persone e cedere al dolore che ci circonda. Probabilmente nessuno in casa Bale gli avrebbe permesso di buttare al secchio tutti questi milaeuro ma gli è stato comunque permesso di prendere una posizione forte e decisa.
Con uno show svolto nel bel mezzo di una bufera di neve simulata, Demna ha presentato la collezione Autunno Inverno 22/23 di Balenciaga su modelli esposti all’intemperia come rifugiati che scappano dalla guerra. Al braccio una borsa che riproduce fedelmente un sacco della spazzatura. Sui seating una maglia con la bandiera ucraina e la sua lettera in cui racconta una dura posizione e una commovente confessione.
Quanta verità e quanta fortuna?
La location era stata pensata per raccontare il cambiamento climatico che ci rende un po’ tutti possibili rifugiati chissà dove. Tutto si è poi trasformato e, se possibile, ha preso ancora più significato. La collezione è composta di abiti austeri, puliti, monocromatici, senza applicazioni. Il tessuto e i suoi colori basic (bianco e nero) sono protagonisti così come i tagli. Chiudono due note di colore: una tuta gialla e un abito blu che ricorda una bandiera al vento.


Non voglio trarre conclusioni, voglio solo sperare che tutte le reazioni siano state spontanee e non dettate dalla necessità impellente di dover giustificare al mondo che la moda ha il diritto di esistere in quanto, prima di tutto, espressione umana.