Io non ho capito il discorso della Chiuri

Questo nuovo articolo nasce da una discussione che è iniziata sui social, sulla mia pagina Instagram @gaiash_ ho condiviso un articolo di Fashion Network a proposito di alcune dichiarazioni di Maria Grazia Chiuri, Direttrice Creativa di Dior e personalità molto influente nel sistema moda internazionale. Prima di iniziare vi lascio qui il link in modo che possiate leggerlo. Evito di lasciare citazioni che potrebbero essere fuorvianti ma per spiegare meglio il tutto ne trascriverò alcune più avanti.

Maria Grazia Chiuri (Dior): “La moda di qualità non può essere democratica”

Il contesto: il Fashion For Future

Con un nome direttamente riconducibile ai movimenti giovanili dedicati alla sostenibilità e alla denuncia di pratiche inquinanti e impattanti, il Fashion For Future è un’iniziativa che avrà luogo a Firenze nel Marzo 2022 che prevede un ciclo di incontri annuali organizzati da Confindustria Firenze, in collaborazione con il Comune di Firenze e il Centro Firenze per la Moda Italiana. Il tutto ha l’obiettivo di prendere consapevolezza sull’effetto della moda e delle sue dinamiche sull’ambiente al fine di sviluppare idee e mosse concrete per un vero cambiamento in un futuro non troppo lontano. La conversazione che ha visto protagoniste le dichiarazioni di Maria Grazia Chiuri era parte di un evento di presentazione dell’iniziativa.

Protagonisti di tutto il contesto sono quindi i marchi luxury, la moda di qualità e l’industria fashion in generale. Non parliamo di abbigliamento di consumo, parliamo di quelli che decidono (loro pensano almeno) come andrà la moda, che direzioni prenderà, cosa indosseremo e come lo faremo. In tutto questo savoir faire deve entrarci il microcosmo della moda sostenibile in cui purtroppo, e ci tengo a precisarlo con cognizione di causa, non tutta la produzione di lusso rientra. Poi cercherò di spiegarvi perchè.

Cosa è stato detto e perchè ne stiamo parlando

Ci sono alcuni passi del discorso che mi hanno colpito positivamente.

questa transizione ecologica se la possono permettere molto di più le grandi aziende, che possono investire, e meno un giovane designer che oggi vuole aprire un suo brand. Può farlo chi lavora in certe aziende che possono permettersi tutto questo, ma è illusorio pensare che possa partire con le stesse logiche un giovane in India o Africa che vuole fare una sua linea”.

Su questo devo dire di essere piuttosto d’accordo e la Chiuri tocca subito un punto fondamentale della problematica di messa in opera della transizione ecologica : costa. Tanto. Per i privati cittadini, per le aziende e ancor di più per chi inizia a piccoli passi nell’industria con budget minimi se non inesistenti. Queste parole mi hanno indotto a pensare che effettivamente se i grandi della moda si rendono conto delle difficoltà di essere eco nell’industria potrebbero fare in modo, investendo nella sostenibilità, che queste tecniche e pratiche diventino talmente comuni d poter essere fruibili per chiunque volesse fare della moda buona.

A farmi sbiancare di prima mattina è stato un concetto che però tradisce in parte questo appena citato, a mio parere modestissimo ovviamente. Vi ricordo che qui facciamo chiacchierate e che sono accolte tutte le opinioni, cerco solo di dare la mia lettura.

“Negli anni passati c’era questa visione della moda democratica, ma se un prodotto è fatto con certi criteri non capisco perché debba essere democratico”.

Leggendo attentamente questo passo ho avuto l’impressione che fosse in leggero conflitto con il primo e quindi ho deciso di fare due cose

  • chiedere la vostra opinione per sentire diverse visioni della cosa
  • informarmi sul concetto di “moda democratica”

La maggior parte di voi han espresso consenso per il discorso della Chiuri puntando l’attenzione sul fatto che effettivamente una moda di qualità che punta alla sostenibilità ha un costo che va rispettato, compreso e a vostro dire anche giustificato. Sono stata sin da subito d’accordo con tutti i propositi e le osservazioni che avete fatto perché credo fermamente nella moda sostenibile per ambiente e persone. Però tra le osservazioni soltanto una mi ha fatto capire che i miei dubbi forse erano giustificati. @fashionableandeasy pagina ig curata da Elisa e Marta, due ragazze appassionate di moda ha risposto al box delle domande iniziando con “se per moda democratica si intende fast fashion” ed è qui che la mia soddisfazione si è finalmente accesa 😀 Sono andata a cercare online in articoli di magazine le definizioni possibili di “Moda Democratica” per dare delle risposte a me e a voi. Quello che ho trovato mi ha confuso ancora di più le idee ma ha rafforzato la mia personalissima opinione.

“Moda Democratica”: mille interpretazioni

Vi riporto di seguito alcuni passi di articoli che hanno parlato dell’argomento, sono sicura che sarete d’accordo che l’espressione è più spinosa di quello che sembra. Sotto ogni citazione in Note c’è la mia personale sintesi del significato di ogni citazione.

Per noi ragazze dell’era analogica, la moda era per poche. La guardavamo incantate sulle riviste delle mamme, oppure al cinema e in tv. Ma non a Sanremo e non nei talk show, dove vestirsi bene non usava. Ci si vestiva e basta, con qualche lustrino e poche velleità. La prima ad averne all’Ariston fu Anna Oxa, che dimezzò il suo peso di colpo per riciclarsi da pioniera gender fluid in precursora della taglia 38. Però è a Carrie Bradshaw che dobbiamo tutto, l’indomita eroina di Sex and the City. È con lei che scoprimmo per la prima volta che si poteva dilapidare uno stipendio per un paio di scarpe firmate e uscire in tiro con top e tutù per incontrare le amiche, così, una sera qualsiasi, senza la scusa della grande occasione. Prima di lei non sapevamo neppure chi fosse Manolo Blahnik, poi ci siamo sforzate di scordarcelo, perché costava troppo e produceva sulle nostre libido lo stesso scorno di una débâcle. La moda non era per niente mainstream. Apparteneva alle star del cinema o alle signore della buona società. Persino Lady D, che pure nasceva aristocratica e si era imparentata con un futuro re, l’ha capito in ritardo che il guardaroba giusto può cambiarti la vita. La sua è divisa tra un prima e un dopo: i look castigati royal-style della fase principessa triste, e le mise da icona del jet set della fase Gianni Versace. La sua metamorfosi fu una lezione per tutte.

Elle, 2018

 E gli stilisti che si devono inventare? Niente. E infatti hanno deciso che adesso vale tutto: il lungo il corto il maxi il mini il nero totale e l’arcobaleno. I diktat della moda non vanno più di moda, è fashion icon chi sa creare, mixare, sperimentare. Il gioco è diventato davvero democratico. In termini di gusti e in termini di status. I bravi mescolano la borsa griffata con la maglietta da 5,90, la tuta dell’Adidas con il tuxedo snob. Vestirsi bene (o come gli pare) è diventato diritto universale. Pure per chi non porta la 38. Ché se la moda è bella perché è varia, tanto più bella è se variano i corpi che la portano a spasso. Le personalità che la raccontano.

Elle, 2018

Note moda democratica= mainstream, libera dai canoni, fatta dai consumatori e non dalle griffe, libera espressione, per tutti i corpi.

È stato il paladino della moda democratica. Non poteva esserci definizione migliore per Elio Fiorucci, lo stilista che con le sue creazioni irriverenti e multicolor ha reso la moda accessibile a tutti, sovvertendo comportamenti e abitudini delle nuove generazioni tra fine anni 70 e inizio 80. Figlio di un commerciante di calzature, Elio Fiorucci è stato unico in questo campo, capace di rivoluzionare la moda e il mercato, quando alla fine degli anni 70 portò a Milano lo spirito libero e trasgressivo della Swinging London.

Esquire, 2018

Note moda democratica = stile libero, senza regole, tutti possono fare moda

Se in passato i luxury goods erano destinati a una limitata cerchia di persone, oggi infatti si sente sempre più spesso parlare di “democratizzazione del lusso” come di quel processo di apertura del settore verso un numero più ampio di consumatori. Sviluppare contenuti nuovi capaci di regalare una nuova esperienza di marca (il cosiddetto brand content) sembra essere diventato il nuovo imperativo per i brand di alta gamma, che nel corso degli ultimi vent’anni hanno sperimentato nuove strategie di marketing.

Forbes, 2018

Ma quali, alla fine, i risvolti di un simile approccio da parte dei leader del lusso? Secondo il professore la risposta è semplice: “I brand che in questi anni hanno fatto leva sull’heritage e sulla trasmissione martellante della propria identità devono prepararsi a costruire una personalità più sfaccettata. Contaminarsi con territori inaspettati, come succede ora con l’arte e il cibo, deve diventare una regola e non una semplice trovata. L’importante è che il brand «viva» questo cambio culturale, che tale cambio sia assimilato da tutti i responsabili, del prodotto, del marketing, delle pubbliche relazioni, della comunicazione. In altre parole è importante che il cambiamento corrisponda a un vero e proprio allargamento culturale anche dell’organizzazione interna. Altrimenti il rischio è che rimanga una formula vuota, alla moda, ma poco credibile”.

Forbes, 2018

Note moda democratica = il lusso sceglie di allargarsi; più fama: più clienti, più vendite, più brand identity; il futuro vede la moda del lusso vicina a tutti i consumatori, altrimenti l’heritage diventa qualcosa di astratto e lontano.

Raccogliendo le note vediamo che in realtà si tratta di concetti diversi ma vicini tra loro. In particolare l’ultimo sembra attribuire la moda democratica come scelta di business proprio ai brand del lusso che hanno fatto più o meno così:

  • siamo belli e ricchi e decidiamo tutto noi
  • ops c’è gente che vende a poco e i giovani non ci comprano, quelli che hanno i soldi oggi sono anche giovani. Avviciniamoci ai giovani. Evviva! Ora vendiamo molto di più, come abbiamo fatto quando abbiamo inventato le seconde linee
  • la gente ci fa pubblicità sui social anche gratuita perché riusciamo ad essere virali. Prima non ci filava nessuno
  • ops ma la gente adesso decide di vestirsi come gli pare e noi non decidiamo più niente
  • sono i nuovi giovani brand che raccolgono per primi le mode, praticamente adesso siamo come gli altri solo che costiamo di più e non sappiamo come giustificarlo. Perché effettivamente una felpa nostra costa 700 euro.
  • non va bene RIPRENDIAMOCI LA NOSTRA AUTORITA’ sfruttando sta cosa del sostenibile

Nella mia testa scema è andata praticamente così, quindi ora vi riassumo in termini più seri la mia opinione.

Cosa penso io.

Io non lo faccio apposta a non essere d’accordo ve lo giuro. e’ che io posso pure dire scemenze, ma una con un certo rilievo non può farlo. Spero non siate d’accordo con me perché significherebbe che le cose vanno bene ed andranno meglio, io vedo solo schifo venduto per oro.

fashion for Future è letteralmente moda per il futuro, e sappiamo quali valori vogliamo portare nel domani. Ora che ad un evento del genere mi si parli di “democratizzazione della moda” giustificandola con la questione dei costi per me non ci siamo proprio.

Vi spiego perché in due fasi:

  • CONCETTO DI MODA DEMOCRATICA leggendo gli articoli per me si tratta meno di fast o slow e più di libera espressione stilistica, nessun diktat che parte dall’alto, moda anche brutta ma fai da te. In più significa anche che i brand luxury si sono avvicinati ad un range più ampio di consumatori per non rimanere inarrivabili nell’Olimpo e per invogliare chi si mette da parte due spicci ad investirli nei valori di know-how, qualità e bla bla bla. Ok. Quindi per me sinceramente il problema sta quì, cioè che i brand del lusso rivogliono la loro autorità e il loro potere decisionale che forse in un’epoca di vintage scelto a cavolo senza troppi condizionamenti viene a mancare. Aggiungo che a questo punto si vogliono mascherare le strategie con le emergenze ambientali quando il lusso, fatemelo dire, non c’entra niente con la sostenibilità. Poi la qualità non è necessariamente prerogativa del lusso visto che le linee sportive dei più grandi marchi in tendenza in questo momento vantano prezzi pazzeschi per qualità decisamente dubbie. Ve lo dice una consumatrice. Oppure ha solo sbagliato terminologia.
  • SE LA SOSTENIBILITA’ DIVENTA ELITARIA CONTINUEREMO AD INQUINARE è questo secondo me è l’aspetto più preoccupante del discorso. Come si può associare un ritorno all’esclusività della moda nell’epoca delle lotte per la libertà sessuale, fisica, per la libera espressione, per la celebrazione del corpo in tutte le sue forme. Io davvero sono preoccupata. Se la sostenibilità e la qualità diventano di nuovo una possibilità di pochi allora ancora più lavoratori saranno malpagati e ancora più fast fashion verrà venduto ogni giorno. Ma pensate se invece per una folle idea il lusso decidesse in investire così tanto in sostenibilità da farla divenire una pratica più economica e applicabile anche a business più piccoli come la Chiuri stessa ha evidenziato. La sostenibilità è già vista come qualcosa di rigido, settoriale e costoso. Se lo associamo alle pratiche della moda dei pochi e ai brand del lusso allora ne segneremo la fine, almeno per l’industria fashion, che è la più colpevole d’inquinamento. Se attuiamo le giuste pratiche la moda democratica può essere sostenibile soprattutto se riusciamo a far diventare sostenibile anche l’abbigliamento. Peccato che in questo senso siano arrivati prima i nuovi e giovani brand di abbigliamento di consumo che il lusso, che vorrebbe pure ancora comandare.

Detto questo, Maria Grazia Chiuri è una figura centrale per la moda internazionale in questo momento e ha già attuato in Dior iniziative volte alla salvaguardia dell’ambiente quindi il suo pensiero è ovviamente molto più consapevole del mio. Spero solo di non averci capito niente, sarei felice di ammetterlo.

E sarei felicissima di sapere ancora cosa ne pensate voi, tiratemi pure i pomodori o le uova, anzi no mangiateveli che è meglio!

#souptheblog

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