Conclusioni criticamente sconnesse sulle collezioni ss22

Siamo alla fine del fashion month e la scorpacciata di collezioni che abbiamo fatto ha lasciato dietro di sé qualche ispirazione, entusiasmo ma anche delusione e riflessioni che la moda necessariamente fa nascere dentro le menti di chi la indaga. Sono sempre stata dell’opinione che l’arte non deve necessariamente farsi carico delle cause sociali e che un’artista può sviluppare anche le sue produzioni prescindendo dal periodo storico o affidandosi a un’aspetto efficace e consumistico per diffondere il suo genio. Insomma per me si può anche fare arte che sia vendibile, quello che personalmente mi interessa è che sia bella secondo la mia personale estetica. E a nessun pittore viene posto obbligo di fare un’arte funzionale o impegnata. Ma ai designer viene chiesto anzi imposto dal mercato. Per la moda è tutto più complesso perché si tratta di un’arte di consumo che risente necessariamente nelle sue produzioni di quello che succede fuori la finestra di un atelier di lusso. Ne consegue che chi fa una moda di consumo (quasi tutta) non può tirarsi fuori dalla società, non può considerarne le oscillazioni perenni.

E in questo resoconto di oggi parleremo soprattutto di come i fashion brands hanno stanno affrontando il post-pandemia almeno dal punto di vista concettuale.

Tra post-apocalisse e la nostalgia del passato.

Prima precisazione: le sfilate si sono svolte fisicamente per alcuni ospiti e online per altri, gran parte della stampa di piccola tiratura ha assistito dal computer agli show. Gli ingressi erano controllati e ridotti al minimo. Questo per contestualizzare.

Arrivando al dunque quello che ci interessa sapere è come i brand hanno affrontato il post-Covid e perchè. Ci sono più o meno due fazioni, tralasciando le collezioni che non mi hanno detto proprio nulla:

  • quella sotto chock del post-Apocalisse
  • quella sfiduciosa dei nostalgici del passato

Se dovessi dirvi in qualche credo non saprei cosa rispondervi, mi sembrano due anti-reazioni al problema. Quello che conta davvero è il risultato, cosa esce fuori dal modo in cui ci poniamo davanti al problema. Per comodità vi chiudo subito la parentesi dei nostalgici: sono stati criticati molto per non aver inserito l’amico Covid nella loro visione e per aver seguito una via che avrebbero potuto seguire anche in un momento X della loro storia professionale. Ci sta, ma per me quando non sai raccontare una cosa è meglio che non la racconti quindi hanno fatto bene. Spiegatemi come Chanel dovrebbe interpretare in maniera concettuale il post-Covid se non fa nemmeno una moda concettuale ma vive di heritage? Per me proprio non ci sta, Chanel farà completi in tweed anche quando porteremo in testa le bolle per l’ossigeno come nello spazio e sopravvivrà per la sua storia. Portare in passerella gli anni ’80 significa anche rinunciare all’apatia da passerella e prendersi del tempo. Poi significa anche “si stava meglio prima”, cosa che non condivido perché mi sembra la scoperta dell’acqua calda. Pandemia, crisi mondiale= si stava meglio prima. Geni del male.

Parlando dei post-apocalittici secondo me in alcuni casi abbiamo fatto passare come straordinarie delle cose semplicemente molto belle. Ora bisogna distinguere. Bello è quello che mi piace e prescinde da tutto. Straordinario è qualcosa che va oltre, qualcosa che gli altri/le altre non hanno fatto. Qualcuno sta anche nel mezzo.

Moltissimi hanno reinterpretato l’abito nella sua forma più essenziale trasformandolo e cambiandone anche la funzione. E’ quello che abbiamo dovuto fare con la montagna di vestiti nel nostro armadio e quello che stiamo ancora facendo con i vestiti che rappresentano un lifestyle che comunque non sarà lo stesso ancora per un po’. Questa secondo me è una chiave ancora più interessante che, togliendo le interpretazioni più distruttive, hanno utilizzato anche tutti quei brand che hanno deciso di fare voto totale allo sportswear o ai tessuti tecnici. Questo mi piace, let’s be honest amici e amiche. Ci servono cose comode, belle, facili da lavare, sostenibili, durature. Questo per me significa stare con i piedi per terra mentre si crea qualcosa di nuovo.

I menefreghisti dell’inclusività

(parlando di body shape)

Voglio chiarire subito un piccolo punto si cui ho già parlato nella diretta con Nicole Volpe di PeachUp Italia, se non l’avete vista potete trovarla qui (vi consiglio di vederla perché è una chiacchierata divertente, rilassata ma anche con qualche polemichetta ahahah). Ribadisco che la moda è fortemente connessa al mercato quindi dire: “fanno sfilare le plus size, persone diversamente abili, tutte le etnie per puro marketing” è come dire “per fare la pizza ci vuole la farina”. Scontato. Partendo da questo postulato e da tutte le riflessioni dell’incipit possiamo proseguire il discorso precisando che l’inclusività di vario genere nella moda non è ancora abbastanza e che bisogna fare molto di più perché tutti e tutte si sentano rappresentati/e. Aaaadesso dopo questa noiosissima premessa in cui mi sono dimostrata pesante come sempre XD voglio additare in particolare due brand (ma ce ne sono stati tanti altri) che se ne sono altamente fottuti di tutti gli altri che hanno incluso varie tipologie di corpo nelle loro sfilate. Non solo perché non hanno incluso modelle con corpi differenti ma perché hanno disegnato capi che effettivamente almeno 2 body shape tra quelle codificate (che poi nelle codificazioni non credeteci mai perché sono ovviamente per natura limitate) non potranno probabilmente indossare. Indizi: a capo c’è una lei, i brand sono italianissimi anche se sfilano in due città diverse, hanno questo stile e shapes da sempre. Rullo di tamburi cari e care lettrici per vostra grazia Miuccia Prada che, nonostante sia a capo di uno dei miei brand preferiti da sempre che ha fatto delle borse in nylon il mio unico oggetto del desiderio, ha deciso di portare la sciura minimal a Milano e Shangai con una moda distruttiva, di rottura ma decisamente troppo lineare per farci entrare un gluteo leggermente allenato. La stessa ha deciso anche di presentare una collezione dal concept pazzesco a Parigi con Miu Miu, disegnata come se avessimo sbroccato di brutto dopo un mental breadown e avessimo deciso di tagliare tutto l’armadio, dal fascino indiscusso e dalle dimensioni di alcuni capi piuttosto ridotte che ci fanno pensare a quanti chili abbiamo preso dopo quasi 2 anni di semi-vita. Vi svelo un segreto: la sua fantastica vita bassa, le incredibili mini e altre magnifiche creazioni non sono un’illuminazione regalata dagli dei della moda ma stanno lì per ricordare i primi anni 2000 in cui stavamo benissimo perché non c’era la crisi e la musica si poteva ballare tutta. Si sono stata forse troppo dura, ribadisco io amo Prada (non mi piace molto Miu Miu, definetely not my style) ma tutto questo mi sembra fin troppo decontestualizzato per essere osannato. Per me è no, e lo è soprattutto perchè trovo tutto questo poco realistico. Più furbi quelli di Blumarine che la pancia scoperta e la vita bassa le hanno proposte accompagnate da uno stile Paris Hilton-like ma con dei volumi anche più morbidi tipo sui jeans. Non fraintendetemi: pure loro se ne sono fregati e io vi ho citato tra tantissime solo alcune collezioni che mi hanno fatto pensare molto a questi argomenti, non tutte e ce ne sono tante altre. Quindi fan di Miuccia please don’t hate me, sono gusti e riflessioni personali.

Conclusioni

Ho letto dappertutto buone impressioni su alcune collezioni come se fossero invenzioni straordinarie. Io ho visto solo anni ’80, accenni di ’90 e tanti early 2000. Andando nel particolare ci sono stati però come sempre dei visionari oppure delle collezioni che sono rimaste fedeli all’estetica del brand senza dire nulla di nuovo oppure portando all’esasperazione l’apatia verso il mondo che cambia. Quella di Saint Laurent ad esempio è stata una collezione coerente e senza sorprese, talmente bella da far dimenticare tutto ma comunque non abbastanza. In tutto questo c’è stato però l’iconico gesto di infilare la pochette nei pantaloni per liberare la mani spesso chiuse in guanti di pelle colorati. Ho osservato con piacere che alcuni outfit erano talmente poco innovativi da poter essere riprodotti facilmente spulciando nell’armadio di nonni, papà e chiunque altro o andando al vintage market. Per me in questo c’è un nulla illuminato che è assolutamente al passo con i tempi, con le necessità e con l’ottimizzazione, esigenza tipica dei nostri tempi. Quello che non è nuovo esiste già ma può essere visto diversamente se interpretato in chiave contemporanea. Ecco perché, nonostante io ami i visionari, ora la moda che guarda indietro funziona e perché tutti i brand che mi hanno portato a queste conclusioni venderanno lo stesso, aldilà delle mie/nostre/vostre opinioni. Termino il ragionamento con una menzione speciale a Balenciaga che con quella che molti definirebbero “estetica del brutto” e le sue scelte di rivoluzionare la visione di abiti, moda e bellezza appunto sta portando dei cambiamenti radicali e sta costringendo molte realtà ad allinearsi con la sua. Stamattina leggevo un articolo in cui veniva analizzata la scelta di avere Kim Kardashian come volto ufficioso (ma anche ufficiale). Lei è il contrario di tutte quelle persone che sfilano per il brand: è costruita, finta, stereotipata. Ma il suo culo finto (e ben fatto) ed eccessivo che la rende schiava di un’estetica puramente americana entra in una tutina Balenciaga fucsia. Quindi magari anche il mio culo (naturale) potrebbe entrarci.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: