Ciao lettori e lettrici! Quì mentre scrivo c’è una luce pazzesca e un sole vitaminico che mi ha dato l’energia giusta per tornare oggi sul blog con la rubrica “Cosa la gente non ha capito della moda” e parlarvi di un tema piuttosto spinoso che è da anni al centro del dibattito sulla sostenibilità: il GREENWASHING. L’argomento è appunto piuttosto complesso quindi avere un’opinione risulta difficile ed esprimerla è addirittura un azzardo, i nostri tempi corrono veloci e il mercato della moda è talmente saturo che ogni realtà piccola o grande che sia tratta temi e problematiche a modo proprio e questo disorienta addetti ai lavori e consumatori. Quindi oggi mi limiterò ad informarvi su un fenomeno curioso ed interessante di cui la maggior parte delle persone NON SANNO DAVVERO NULLA. Perchè? Perchè non siamo abbastanza consapevoli quando consumiamo e abbiamo talmente tanta fretta che ci fidiamo di quello che c’è scritto sull’etichetta e sul talloncino del prezzo senza farci domande. La colpa non è certo tutta nostra, dobbiamo ancora abituarci al fatto che oggi marchio non significa più garanzia, che nel 2021 alcune aziende hanno deciso di nascondere con il marketing delle vere e proprie truffe ai consumatori basate su informazioni non esaustive o ancor peggio false. Il greenwashing in particolare è un fenomeno che riguarda grandi catene e nella moda soprattutto il fast-fashion. Ma non voglio dilungarmi troppo quindi partiamo subito iniziando dal significato della parola e da una piccola parentesi sulla sua storia.
GREENWASHING: trattasi di una sincrasi dei termini inglesi green (verde) e washing (lavare) collegato al verbo whitewashing ovvero imbiancare ma inteso anche come “nascondere, mascherare”. Il termine è stato per la prima volta utilizzato dall’ambientalista Jay Westerveld nel 1986 che riferendosi alle catene di alberghi che incitavano i consumatori ad utilizzare meno biancheria per ridurre l’impatto ambientale dei lavaggi li accusò invece di aver fatto leva sulla sensibilità ambientale per diminuire le spese dei lavaggi. Dai sarà capitato anche a voi di leggere: “riutilizza gli asciugamani e aiutaci a ridurre l’impatto ambientale”! Ma quante volte questo è vero? Avete mai provato a verificare?
Dal Cambridge:
behaviour or activities that make peoplebelieve that a company is doing more to protect the environment than it really is
Durante gli anni 90 il fenomeno del greenwashing è aumentato vertiginosamente rendendo a parole green quasi tutte quelle aziende che in realtà erano famose per essere tutto meno che etiche e sostenibili. Con l’avvento del marketing e la crescita dell’importanza della brand identity, il greenwashing è diventato una pratica strettamente connessa all’immagine comunicata. Arrivando a oggi riconoscere una campagna sostenibile con reali basi è praticamente impossibile: la crescita della consapevolezza ambientale ha fatto si che, parlando di moda, catene di fast-fashion famose per le loro pratiche di sfruttamento e inquinamento riescano a “sistemare” la loro immagine agli occhi di consumatori poco consapevoli con piccole capsule collection dichiarate sostenibili. LA verità è che il marchio poi non dichiara su nessuna fonte consultabile le modalità con cui riesca a realizzare prodotti sostenibili o cosa fa perchè dei capi ottenuti con lo sfruttamento di lavoratori privi di qualsiasi tutela diventino improvvisamente delle piccole testimonianze di etica. Vi faccio qualche esempio.

Uno dei casi di cui voglio parlarvi è H&M Conscious, ovvero la linea letteralmente “consapevole” di uno dei colossi del fast-fashion. In breve senza dilungarcia proposta iniziale è quella di produrre una linea con tessuti organici di una qualità maggiore rispetto a quella standard del marchio introducendo anche tessuti riciclati e altre iniziative. In teoria va tutto bene. In pratica quello che è successo quando le inziative green di H&M sono inziate è che le critiche si sono concentrate sul fatto che nulla di questi processi di produzione fosse in realtà tangibile, ovvero non era possibile verificare se il marchio stesse realmente facendo qualcosa. Vi faccio un esempio più recente e diverso da wuesto. La critica più recente risale all’anno appena passato, la questione è stata trattata da Independent il 1 febbraio 2020 in un articolo. H&M ha annunciato che avrebbe iniziato ad utilizzare una nuova fibra nei suoi capi: CIRCULOSE è un materiale prodotto da newcell da rifiuti di cotone che vanta di essere oltre che riciclato anche vegano e non-toxic. Il problema sollevato su Independent è che dietro l’ingresso di questa fibra nelle produzioni di H&M si nasconde l’ennesimo tentativo del marchio di essere sempre al passo con i tempi e di attirare consumatori poco consapevoli visto che nessuno ha una cultura di base sulla sostenibilità soprattutto nel nostro paese. Quindi la maggior parte dei laureati sono consumatori inconsapevoli che si fidano di un marchio che offre un prodotto di consumo ad un prezzo adattissimo al portafogli. Cercando di andare pià a fondo però possiamo dedurre che le produzioni non sono cambiate: sfruttano la stessa forza lavoro provata di ogni diritto per un’intensa produzione ad impatto disastroso per l’ambiente. Soprattutto il fast-fashion continua a produrre, TROPPO. I capi diventano potenziale spazzatura come è successo con gli invenduti durante la pandemia. Può quindi l’utilizzo al 50% di un nuovo materiale essere un effettivo cambiamento nella filiera produttiva di un marchio che continua però a produrre abiti scadenti in quantità enormi senza essere limitato da leggi di tutela dell’ambiente? Date voi la risposta. In questo modo e sostenuto da una campagna di marketing adeguata ed efficacissima il marchio riesce a fare greenwashing ai suoi consumatori senza incontrare troppi ostacoli. Ripulisce la sua immagine, utilizza nuove tecnologie e non cambia nulla. Ma ne guadagna in termini di immagine, pubblico e soldini.
Un altro caso discusso e divertente è stata la busta di carta natalizia di Primark disegnata in modo che dalla stessa busta si potesse ricavare della carta per regali. Effettivamente geniale, lo ammetto. In più se non siete abituati a riutilizzare in casa può essere uno spunto per iniziare a farlo. Il fatto che debba dircelo Primark che produce un abbigliamento più economico delle altre catene fast-fashion. Primark ha aderito lo scorso anno alla Carta per la Moda Sostenibile e già nei report del 2018 riportava diminuzioni di emissioni. Sono tentativi? Sicuramente. Tentativi di fare meglio o di ripulirsi con poco sforzo? Pensate che secondo un’indagine il 44% dei consumatori inglese boicotterebbe un brand non etico a favore di uno etico e trasparente. Traete le vostre conclusioni. Di esempi ce ne sarebbero davvero tantissimi, se volete saperne di più scrivetemi quì nei commenti e posso fornirvi altri spunti.
Qualche dato:
Un rapporto sull’economia tessile del 2015 mostra:
-per la produzione di abbigliamento vengono utilizzati 53 milioni di tonnellate di fibra, di cui il 12% va perso.
-98 milioni di tonnellate di petrolio all’anno vengono utilizzate per produrre tessuti sintetici, fertilizzanti per coltivare cotone e prodotti chimici per produrre, tingere e rifinire fibre e tessuti
-43 milioni di tonnellate di altre risorse non rinnovabili vengono utilizzate nel processo di produzione lungo la catena del valore
-Il 20% dell’inquinamento idrico industriale a livello globale è attribuibile alla tintura e al trattamento dei tessuti
-Il 73% dei vestiti viene messo in discarica per essere incenerito
La riflessione finale che ci tengo a fare è sull’aspetto economico: comprare fast-fashion costa poco e ci permette di coprire le nostre esigenze in linea con il nostro budget. Parliamoci chiaro, i brand sostenibili costano così come costano processi e lavorazioni. Vorremmo fare tutti del nostro meglio con le risorse che abbiamo ma non sempre è possibile. La maggior parte dei piani per la sostenibilità delle aziende hanno come anno di raggiungimento degli obbiettivi il 2030: se tutti promettono di fare quello che dicono tra meno di 10 anni la sostenibilità potrebbe diventare di largo consumo. L’ideale sarebbe potersi permettere dei prodotti che rispettino umanità e ambiente senza troppi sforzi. Si tratta per me di pura utopia perchè per raggiungere questo risultato si dovrebbe avere una produzione al 100% sostenibile e trasparente da parte di ogni azienda esistente. Se mettiamo in luce interessi economici e fatturati possiamo dedurre facilmente che questo potrebbe non avvenire mai e potremmo essere costretti a perpetuare le nostre pessime abitudini anche in un futuro lontano. Cosa possiamo fare? Non gettare, donare, comprare quando necessario, accumulare si ma senza poi sprecare, investire ogni tanto su pezzi durevoli, lavare con detergenti biodegradabili e a lavaggi delicati che ci permettano di conservare il prodotto. I consigli sono molti e, in fondo, sempre gli stessi…..ne avete altri? Scrivetemi nei commenti quello che pensate!